Caso tutto sommato banale: Lapo Elkann ne fa una delle sue a New York con escort e coca, poi simula una sequestro per avere dalla famiglia 10000 euro per pagare il conto, in un primo tempo viene arrestato, poi la procura USA fa cadere le accuse per simulazione di reato. Fin qui niente degno di nota. Effettivamente proprio niente no, ma Lapo ci ha abituato a cose simili. Succede però che il Corriere della Sera dia la notizia on line e un addetto ai social del giornale condivide il relativo post accompagnandolo con il seguente sontuoso commento: “Che cazzo. Tutto sto casino per 10.000€? Ma non poteva farle/fargli fare una bonifico da papino?” Da lì seguiranno le scuse del Corriere.

Qual è la notizia che più turba? La marachella di quel monello di Lapo? L’archiviazione da parte della procura newyorchese? L’errore dell’anonimo social media manager? No: sono le scuse del Corriere.

Perché scusarsi? Ma una direzione con un po’ di schiena dritta no? In quel commento del Corriere c’è una riflessione basica ma più che verosimile: l’ipocrisia di tanti media è da tanti anni uno dei tanti tappeti rossi per gli Agnelli. Ma la verità non è mai sbagliata. L’attuale pecora nera degli Agnelli ha soltanto la fortuna di appartenere ad una famiglia ricchissima: tante persone che hanno i suoi stessi problemi (di psichiatria e di drogheria) passano per risolverli qualche anno in carcere, non qualche minuto. Perché, premesso che anche la samba con i trans credo che costicchi, para bailar la bamba o hai tanti soldi o li vai a rubare (o ne hai tantissimi ma non ti bastano lo stesso e allora fingi di essere stato sequestrato per estorcerne altri alla tua famiglia). La differenza tra loro e lui è però anche un’altra. I drogati di strada sono per lo più visti come gentaglia da evitare: ti metti a parlare con un drogato magari pure truffaldino? Giusto gli avvocati lo fanno perché devono. Mentre invece se il tossico che delinque è un Agnelli, statene certi, al prossimo giro verrà ancora eletto arbiter elegantiarum dai giornalisti più cool e chic, maestro di un’eleganza fatta di capi d’abbigliamento con fogge, colori e accostamenti per pensare la quale sembrerebbero adatti i più immaginifici allucinogeni degli anni sessanta piuttosto che la solita polverina magica di Lapo. In realtà però un modo più igienico per imitare l’estetica lapiana esiste: 1) comprare alcuni stock di vestiario da rimanenze di magazzino rigorosamente fuori moda almeno da trent’anni, recuperare il guardaroba maschile degli ospiti di un matrimonio zigano, saccheggiare un cassonetto della Caritas, scegliere qualche pezzo in negozi specializzati in abiti da lavoro (ad esempio smoking da presentatore di circo, tuta da apicoltore, costume da gondoliere, livrea da portiere di vecchi alberghi americani a cinque stelle, completo da musicisti di orchestra di liscio per la serata dell’ultimo dell’anno, mimetica da soldato dei corpi speciali, meglio ancora se da contractor che è stato scartato alla visita di leva, ecc…) e infine scambiarsi i vestiti con qualche amico trans (fortunello Lapo, anche qui è avvantaggiato); 2) buttare tutto in un mucchio; 3) bendarsi e prendere a caso. Quello che viene fuori è un perfetto outfit in stile Lapo. Lo stesso stile che i giornali al grido di “al Lapo! Al Lapo!” fanno diventare haute couture. Ma – finisco riallacciandomi all’inizio – come per il cervello di certi tossicodipendenti, così anche per le schiene di alcuni giornalisti e direttori non sembra esistere cura.