“Ma, madame, lei con queste scarpe ha camminato!” Così il direttore di un negozio rispose, guardandone le suole, a una giovane francese che lì aveva comprato un paio di scarpe con tacchi a spillo Roger Vivier, appena lanciate sul mercato, quando quella il giorno dopo gliele riportò perché erano scomode.
Il modello pare risalga all’ottocento, ma è nei primi anni cinquanta che le donne, se possono permetterselo, come dopo ogni periodo di depressione – storico o psicologico, – accantonano comodo e utile in favore di estetica e frivolezza. La guerra era finita, dell’aiuto femminile nel lavoro bellico non c’era più bisogno (nessuno costruisce fucili e cannoni in tacchi alti) e il metallo, che il rinforzo necessario per quel tipo di tacco richiedeva, non era più razionato, come pure – almeno per alcune – il denaro per permettersi qualche stravaganza. E fu così che nel giro di pochi anni i tacchi si allungheranno.
I tacchi, come dicono le donne, sono un male necessario, piacciono ma possono dare anche dispiaceri.
Del resto in lingua inglese chiamano i tacchi a spillo “stiletto”. Il termine è in realtà italiano e a sua volta viene da stilus, il puntale o coltello acuminato che nell’antichità serviva per scrivere sulla cera ma, abbastanza comunemente ancora fino a pochi secoli fa, anche per difendersi ed attaccare. Maneggevole, occultabile, efficiente, con cui sfruttare l’effetto sorpresa. Arma da sicari e da donne (in La dama bianca di Grazia Deledda la nobildonna protagonista vendica il marito con quell’oggetto). Nel linguaggio militare si chiamavano stili caeci anche le punte di ferro che si nascondevano nel terreno per ritardare l’avanzata della cavalleria nemica.
Ma è evidente che gli stiletti sono pericolosi anche se non sono infissi nel terreno ma direttamente attaccati alle scarpe. Sì, dalle cosiddette fuck me shoes alla fall by shoes il passo – per rimanere in tema – è breve ma pericoloso.
Infatti in Italia la giurisprudenza sull’uso dei tacchi si è occupata più volte di eventi traumatici. Facciamo un piccolo riepilogo in materia.
La rottura del tacco della scarpa della sposa come fonte di danno esistenziale è ormai problema superato, avendoci messo una pietra sopra la suprema corte, addirittura a sezioni unite: “Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia” (cass. civ. n. 26974/2008).
Ma è sulle cadute dove si è formata la giurisprudenza più ampia, che in quegli incidenti spesso associa l’uso dei tacchi all’imprudenza: così per l’aiuto cuoca salita su un bancone per pulire una cappa (cass. civ. n. 9698/2009), così per la ultrasessantenne con – ad abundantiam – maschera da carnevale sul viso, sigaretta in una mano e borsa nell’altra (18332/2013), così per l’invitata ad un matrimonio nel duomo di Napoli (cass. civ. n. 3662/2013), tutte signore capitolate malamente dall’alto delle loro calzature (non si rinvengono casi con protagonisti maschili, ma probabilmente è soltanto questione di tempo). L’ultimo episodio giudiziale appena citato viene ricordato sul Sole 24 Ore in un articolo recente sul tema, che racconta che in quel caso la rottura del tacco sarebbe occorsa proprio ad una sposa. Però questa è una fake news. Il contesto era matrimoniale, ma l’incidentata non era la nubenda. Ma sappiamo come funziona: per un quotidiano di alto bordo fa sicuramente più colpo e più click parlare di caduta dell’impalmata nel giorno del sì. Però, appunto, così non era, bastava leggere meglio la sentenza o non inventare circostanze per colorare il fatto (seppur in questo caso soltanto di bianco).
Pochi giorni fa l’ultima conferma giurisprudenziale. La corte di cassazione con l’ordinanza n. 3046/2022 ha affermato che una donna che indossa tacchi a spillo e cade sul pavimento di un supermercato non ha diritto al risarcimento, almeno in assenza della prova di altri elementi che possano aver contribuito a provocare l’incidente (per esempio un pavimento bagnato). La suprema corte con ordinanza n. 3046/2022 ha rigettato il ricorso inoltrato da una donna che in appello si era vista rigettare la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della società titolare di una catena di supermercati.
E all’estero come sono messi quanto a diritto dei tacchi?
Non ci interessa citare noiose decisioni sulla responsabilità civile, ne abbiamo abbastanza qui. Che dire però dell’uso omicida delle scarpe da parte di Thelma & Lilia? Pardon, Thelma Carter e Ana Lilia Trujillo, due signore che negli USA sono state processate e condannate per aver ucciso a colpi di tacchi a spillo sulla testa i loro rispettivi compagni.
Prova provata che evidentemente, se usato con forza e precisione, un tacco 12 può equivalere a un calibro 12.
Ed allora da boot heels a boot hill è un attimo.