da Gabriele Dallara | Gen 1, 2022 | Uncategorized |
Quarti di finale di Coppa Italia. Napoli – Inter: 0 -2. Sarri – Mancini: 1 – 3. Pur mantenendo la stessa differenza reti-insulti (“frocio” e “finocchio” li contiamo insieme) il risultato della gara tra i giocatori è meno perentorio di quello del match tra i mister, ovvero tra l’allenatore di villaggio e l’allenatore da Village People, parafrasando le reciproche cortesie. In una partita tutta all’attacco, in cui quell’omaccione bruto e cattivo di Sarri si è macchiato del delitto di lesa mancinità, a ben ragionare l’allenatore dell’Inter è stato almeno quantitativamente più discriminatorio di quello del Napoli: checché (attenzione all’accento, non voglio querele) si dica, la costituzione afferma che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, certamente senza distinzione di “sesso”, ma anche di “condizioni personali”, e quindi pure di età. E l’articolo 11 del codice di giustizia sportiva è quasi onnicomprensivo nel definire i comportamenti discriminatori. Ma anche se non lo dicessero la più alta e la più specifica fonte giuridica, sembra logico che dare del “vecchio” (e in un certo senso anche del “cazzone”) sia discriminatorio; tralasciando il particolare che cinque anni di differenza tra l’uno e l’altro allenatore sembrano pochi per poter giocare al monello che canzona il vecchietto. Ma discrimina anche l’anatema manciniano “tornatene ad allenare in C”. Come dire, tu Sarri, parvenu dell’arte pedatoria, hai allenato anche in C (veramente old big dick ha fatto di peggio, avendo allenato anche in seconda categoria); io Mancini invece ho calcato soltanto stadi con bandierine filigranate e reti di seta, senza sporcarmi i mocassini in campetti di paese paludosi e diserbati a guidare dopolavoristi, giovani di poche speranze e quasi ex giocatori. Perciò ecco qui la discriminazione verso Sarri anche per “condizioni sociali”, sempre alla fulgida luce dell’articolo 3 della costituzione. Per inciso, la carriera degli allenatori di calcio in Italia ricorda un po’ per classismo quella dei militari in epoche neanche troppo remote. Un nobile rampollo iniziato alla vita delle armi partiva direttamente da ufficiale, anche se era un imbelle che non sapeva dare ordini nemmeno al suo cavallo. Per un giovane popolano ciò era impensabile: veniva reclutato nella truppa e, soltanto se aveva grandi doti di comando e una enorme dose di fortuna, forse col tempo riusciva a scalare la gerarchia e vestire l’uniforme da ufficiale. Per gli allenatori di calcio succede qualcosa di simile, ma invece della nobiltà conta la precedente carriera da giocatore. Se uno è stato un calciatore di altissimo livello, come allenatore sembra debba partire di diritto da “ufficiale”, cioè allenando subito al top. E nessuna regola può essere d’ostacolo: può farlo, ovviamente ogni riferimento non è casuale, anche se non ha ancora il patentino di allenatore di prima categoria o se nel corso dello stesso anno è stato tesserato con un’altra squadra. Del resto, come diceva Albertone nei panni del marchese del Grillo, “io so’ io, e voi non siete un cazzo” (o, eventualmente, non sei che un “cazzone”, come nel caso di Sarri). Se, invece, il neotrainer è stato un semplice calciatore, inizierà da allenatore-soldato semplice. E, come tutti gli aristocratici di questo mondo, un allenatore di sangue blu (o blucerchiato, biancoceleste, rossoblù, nerazzurro… Sarà un caso che Mancini gira quasi sempre squadre con qualcosa di tendente al blu?) non smetterà mai di guardare con altera supponenza un suo parigrado plebeo che viene dalla gavetta. O, nel caso, dall’Associazione Calcio Sansovino. Passando dal discrimine al crimine, si sussurra negli ambienti sportivi e nei salotti letterari che la quasi assoluzione di Sarri sia stata dettata da un’analisi glottologica dell’uno-due “frocio-finocchio”. L’ardita nonché erudita elucubrazione del giudice sportivo Gianpaolo Tosel avrebbe avuto lo scopo di tacitare chi vorrebbe mandarlo definitivamente in pensione (a dir la verità ci sarebbe già da sedici anni, ma si sa, i magistrati fino alla quarta età sono obbligati a furor di popolo a donare alla comunità il loro evidentemente insostituibile sapere). Il nostro esegeta del diritto sportivo sarebbe quindi stato più sottile di quel che subito si era pensato leggendo la sentenza: avrebbe infatti fondato il mite verdetto sull’ambiguità, non sessuale, ma semantica. E l’epiteto contestato si presta davvero a varie interpretazioni. Innanzi tutto per alcuni il termine “frocio” deriva da “floscio”. E floscissimo è in effetti il ciuffo sale, cacio e pepe del tecnico nerazzurro. Per altri l’etimo va trovato in “frogione”, dalle grosse froge. E nell’episodio incriminato il Mancio furioso è stato immortalato con narici dilatate e sbuffanti più di un toro impazzito. Per altri ancora con quel termine si indicavano i “f(e)roci” lanzichenecchi invasori di Roma, che nel prendersi il bottino di guerra sembra non facessero troppe distinzioni tra uomini e donne: e la compagine interista non è indubitabilmente nordica e feroce? Non è calata al sud a mettere a ferro e fuoco la porta del Napoli e a conquistare il San Paolo? Ma questo filo (filo)logico è solo un’ipotesi sul ragionamento sotterraneo del giudice. Nella motivazione ufficiale della sentenza Tosel afferma invece un altro principio giuridico, in realtà molto più spericolato: visto che Mancini è notoriamente etero, non c’è discriminazione. In altre parole, generalizzando la portata del principio, se si dice qualcosa di offensivo a qualcuno ma ciò che si dice non corrisponde al vero, non c’è illecito. Quindi se uno dice ad un altro “finocchio”, ma quest’ultimo non è foeniculum vulgare ma invece è ad esempio phoenicius nobilis, tutto a posto. Interessante. Peccato che nel diritto penale esista un principio (articolo 596 del codice penale, pur limitato ad alcuni casi e con la recente depenalizzazione ancor più ridimensionato) secondo cui se si dice qualcosa di offensivo di qualcuno e si dimostra che questa cosa è vera, non c’è illecito: questo istituto si chiama exceptio veritatis. Ed è l’esatto opposto di quello applicato dal nostro giudice sportivo, che invece plasma questa originale exceptio falsitatis, per quel che è dato sapere principio inedito nei sistemi giuridici di ogni tempo e paese. In buona sostanza per il lesto Tosel chi dice il falso di qualcuno non merita attenzione e quasi nemmeno sanzione. Così, se applicassimo insieme e tirassimo un po’ le due exceptiones, nessuno verrebbe mai punito per illeciti contro l’onore: sarebbe scriminante – ma non discriminante – offendere dicendo il falso come lo sarebbe dicendo la verità. Ma in ogni caso, in tutta la querelle quello che ci guadagna alla fine è comunque l’offeso Mancini. E non perché è riuscito con i suoi piagnistei a destabilizzare per un po’ l’ambiente calcistico napoletano. Ma perché è la prima persona al mondo che è riuscita ad ottenere una sentenza che certifica che non è gay.
da Gabriele Dallara | Gen 1, 2022 | Uncategorized |
La procura di Velletri nel caso di Willy Monteiro Duarte dopo qualche giorno ha cambiato l’imputazione da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario aggravato dai futili motivi.
Ma che differenza c’è tra l’omicidio preterintenzionale e quello doloso o volontario o, come viene chiamato in altri ordinamenti, intenzionale?
Uno dei principi cardine del diritto penale è che conta quello che si è fatto ma anche quello che si voleva fare.
Nell’omicidio preterintenzionale (che va oltre l’intenzione, in latino praeter intentionem) il responsabile vuole soltanto far del male ma non vuole la morte della vittima, morte che però si verifica a causa dell’azione violenta, quest’ultima sì voluta.
Nell’omicidio volontario il responsabile vuole la morte della vittima oppure, anche se non ne vuole la morte, immagina e accetta la possibilità, il rischio, di ucciderla con la propria azione violenta.
La linea di confine quindi spesso è questa: nell’omicidio preterintenzionale la morte della persona aggredita non è né prevista né voluta dal responsabile, nell’omicidio volontario è prevista ma può essere non voluta.
La differenza si pone anche in termini di pena minima prevista per ciascun reato, nel rapporto di più del doppio tra l’uno e l’altro: l’omicidio preterintenzionale è punito con una pena base di almeno dieci anni di reclusione, quello volontario di almeno ventun anni.
Ipoteticamente però se fosse stata mantenuta una contestazione di omicidio preterintenzionale e i responsabili dell’uccisione di Willy avessero scelto il processo abbreviato e magari avessero ottenuto le attenuanti generiche prevalenti, non è impossibile che avessero potuto ottenere una pena finale di nemmeno quattro anni e mezzo. Pena che comunque non sarebbe stata scontata del tutto, con le agevolazioni che la legge prevede anche nella fase di esecuzione della pena. In nemmeno un paio d’anni avrebbero potuto essere liberi o semiliberi. Se poi, sempre ragionando per ipotesi, per qualche miracolo giudiziario (l’ottenimento di un’ulteriore attenuante) la pena fosse scesa sotto i quattro anni i responsabili avrebbero potuto addirittura non entrare mai in carcere.
Nell’omicidio di Colleferro, caratterizzato da una furia ingiustificata, poteva venire fin dall’inizio più di un dubbio che l’imputazione corretta potesse essere quella di omicidio volontario invece che preterintenzionale. Non è fuori luogo pensare che la pressione dei media e dell’opinione pubblica abbia contribuito a far cambiare in corsa una scelta giudiziaria “prudenziale”, come è stata definita dallo stesso giudice per le indagini preliminari che l’ha avvalorata.
Peraltro nel caso Willy per ora non è stato focalizzato da nessuno (ma si spera lo sarà nel prosieguo del procedimento) un altro aspetto giuridico che potrebbe avere una certa rilevanza, la cosiddetta “minorata difesa”, che si ha nell'”avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Questa circostanza aggravante sembrerebbe non meno calzante all’omicidio in questione di quella dei futili motivi, già contestata.
Come ulteriore spunto di riflessione riporto la più recente decisione della corte di cassazione sulla materia (sentenza n. 11946/2020), in cui è stato deciso – in un caso abbastanza analogo a quello di Willy ma all’apparenza tutto sommato più lieve quanto al comportamento violento – che l’imputazione corretta era quella ben più grave di omicidio volontario: “Si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida – quando la condotta, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte dell’agente anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva ravvisato il delitto di omicidio preterintenzionale nella condotta dell’agente che, eseguendo una presa al collo da dietro della vittima, aveva premuto con forza eccessiva, o comunque per un tempo superiore ai sette secondi, le ghiandole barocettoriali della stessa, così interrompendo l’afflusso di sangue al cervello e provocando l’arresto cardiaco).”
Rapportando il principio all’omicidio di Colleferro, sette secondi di strangolamento devono essere considerati meno pericolosi di venti minuti di pestaggio?
Quindi, al di là dei tecnicismi, la domanda fondamentale che ci si deve porre nel caso Willy potrebbe quasi apparire retorica (se saranno confermati in istruttoria i dati emersi finora): più uomini robusti, praticanti ed esperti di arti marziali, che picchiano per venti minuti un ragazzino, anche con calci alla testa, anche quando questo era a terra incosciente, non immaginavano che poteva morire?
da Gabriele Dallara | Gen 1, 2022 | Uncategorized |
“La lacuna c’è, anche quando esista una norma per rimediarvi, finché coloro che non hanno, in base a questa, il potere non provvedono effettivamente a reintegrare o sostituire l’istituzione caduta”. Mentre leggevo subito dopo i fatti su vari media gli articoli sul motivo dell’inerzia dello stato davanti all’aggressione di Roberto Spada, esponente di un clan mafioso fascistoide, verso Daniele Piervincenzi, giornalista di Nemo, mi è tornato in mente questo concetto di Santi Romano. Il pensiero, contenuto nelle Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, paradossalmente pubblicate in pieno periodo fascista, sottintende che, in parole povere, è inutile avere le leggi se chi deve applicarle non lo fa. La parafrasi altrettanto sempliciotta di questo principio la utilizzano spesso le forze dell’ordine per spiegare confidenzialmente che loro arrestano sì i delinquenti, ma poi i giudici, a volte evidentemente più azzeccagarbugli degli avvocati, glieli rimettono in libertà. Fino a qui siamo di fronte alla secolare distinzione tra le due facce della giustizia: toga e divisa, law e order, bilancia e spada. Ma mi ha fatto un po’ tristezza leggere quegli approfondimenti giornalistici paragiuridici – che i mezzi di informazione, come spesso succede, hanno poi scopiazzato uno dall’altro – secondo cui nel caso Spada lo stato era legalmente impotente. Ai sensi del codice di procedura penale non si sarebbe cioè potuto in alcun modo arrestare, fermare o sottoporre a misura cautelare questo tizio. Quindi non perché la legge non veniva applicata, ma perché proprio non c’era una legge che lo permettesse. Ma siamo davvero oltre il caso prospettato da Santi Romano? In realtà no, ci siamo dentro in pieno, perché la legge adatta per mettere le manette a Spada c’era eccome. Per fortuna dopo un po’ l’hanno trovata anche le autorità preposte. La legge giusta in effetti esiste quasi sempre. In Italia nessuno sa esattamente quante leggi abbiamo. Ci hanno provato in molti a contarle e ogni volta esce un numero diverso. Cinquantamila, centomila? Di sicuro tantissime. E tra così tante ce ne sarà pure una applicabile al caso concreto, no? Nel caso Spada ce n’era probabilmente addirittura più d’una tra cui scegliere fin da subito. In merito a questa aggressione la contestazione delle sole lesioni (che, considerate autonomamente, davano poco margine all’autorità giudiziaria) era proprio il minimo sindacale. Roba da patteggiamento natalizio. Guardando appena intorno c’erano però la violenza privata, l’aggravante mafiosa, le misure di prevenzione, la normativa sulla detenzione di armi… Sì, perché il manganello fa molto coreografia fascista, ma, anche se in relazione a questo caso non l’ho ancora letto su alcun giornale, è un’arma impropria, che come tale va trattata. Per fortuna l’episodio è stato ripreso e divulgato e lo sdegno è salito. E a volte questo olia i meccanismi della burocrazia giudiziaria. Così un vigliacco (tra le altre cose) è stato assicurato alla giustizia. Non un duro. Uno che non ci assomiglia nemmeno a un duro. Perché colpire a tradimento un altro che ti sta parlando e poi inseguirlo e picchiarlo armato di sfollagente mentre barcolla e sanguina è da piccoli vigliacchi. Un duro invece è un cronista che ha il coraggio di andare nella tana dei lupi con in mano soltanto un microfono, non un manganello. Peraltro non mi pare di aver visto Spada provare a dare testate ai carabinieri che lo portavano via. Bene così. Giornalisti e programmi coraggiosi sono armi essenziali a favore della democrazia e contro le mafie. Del resto, come presagiva già Jules Verne, Nemo vince contro la piovra.